
In una società basata sulle classi, quando un superiore parla con un sottoposto è sempre il secondo a tenere gli occhi bassi. È lo schiavo a guardare per terra, non il padrone. Negli Stati Uniti del sud, un tempo, un uomo di colore poteva essere bastonato per aver osato guardare direttamente in faccia una donna bianca.
Guardare è un atto di autoaffermazione, ed è sempre stato considerato tale.
L’atto basilare dell’affermazione di sé è l’affermazione della propria coscienza. Questo implica la scelta di guardare, pensare, essere consapevoli, illuminare con la nostra coscienza il mondo esterno e quello interiore del nostro essere. Fare domande e sfidare l’autorità sono atti di affermazione di sé. Pensare con la propria testa – e attenersi a quello che si pensa – è la radice dell’affermazione di sé. Venire meno a questa responsabilità significa venire meno a se stessi al livello più fondamentale.
L’affermazione di sé non va confusa con la ribellione irrazionale, in cui viene meno la consapevolezza. Senza la consapevolezza, l’affermazione di sé è paragonabile alla guida in stato di ubriachezza.
A volte le persone essenzialmente dipendenti e timorose scelgono una forma di autoaffermazione assolutamente distruttiva, che consiste nel dire automaticamente «No!» quando sarebbe nel loro interesse dire «Sì!» La loro unica forma di affermazione è la protesta, che abbia senso o meno. È una reazione diffusa tra gli adolescenti, e tra gli adulti che non sono maturati oltre il livello adolescenziale di consapevolezza. L’intento è proteggere i loro confini, il che di per sé non è sbagliato. Ma il mezzo adottato impedisce loro di passare allo stadio successivo di sviluppo.
Se una sana affermazione di sé richiede la capacità di dire di no, questa è comprovata non tanto da quello a cui siamo contrari, quanto da quello a cui siamo favorevoli. Una vita fatta di continue negazioni è uno spreco e una tragedia.
L’autoaffermazione richiede non solo che ci opponiamo a quanto deploriamo, ma che viviamo ed esprimiamo i nostri valori. Sotto questo aspetto, è intimamente legata alla questione dell’integrità.
L’affermazione di sé comincia con l’atto del pensare, ma non si esaurisce in quello: è portare noi stessi nel mondo.
Aspirare non è ancora affermarsi, ma tradurre in realtà le nostre aspirazioni sì. Una delle più grandi illusioni in cui possiamo cadere è considerarci degli idealisti e dei sostenitori di valori, senza però perseguire questi valori nella realtà. Vivere nel sogno non è affermarsi. Lo è poter dire, alla fine, «Mentre esistevo c’ero, ho vissuto».
Praticare con logica e coerenza l’affermazione di sé vuol dire prendersi un impegno con il proprio diritto di esistere, il quale nasce dalla convinzione che la mia vita non appartiene ad altri e non sono su questa terra per rispondere alle altrui aspettative. Molti sono atterriti da questa responsabilità: significa che la loro vita è nelle loro mani, e che non possono contare sulla protezione né dei genitori, né di altre figure autoritarie. Significa che sono responsabili della loro esistenza e devono generare da soli il loro senso di sicurezza. Non tanto temere questa responsabilità, quanto arrendersi a questo timore contribuisce in modo determinante alla distruzione dell’autostima.
Se non mi batto per il mio diritto di esistere e di appartenere a me stesso, come posso sentire di avere una dignità personale? Come posso avere un livello decente di autostima?
La mia vita non appartiene ad altri e non sono su questa terra per rispondere alle altrui aspettative.
Nathaniel Branden, tratto da I sei pilastri dell’autostima, Ed. TEA
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Titolo: I sei pilastri dell’autostima
Autore: Nathaniel Branden
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Crediti: Immagine in apertura di Kalle Saarinen