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Una via chiamata dolore

Prima parte del progetto “L’altra faccia del dolore”

Che tipo di bellezza potrebbe mai esserci in un’esperienza dolorosa?

Ripartiamo da qui, da questa domanda, la stessa a cui proverò a dare una risposta fornendomi degli strumenti che la vita mi ha generosamente elargito: esperienza personale, storie di vita condivise, teorie, pratiche.
La teoria alla base di tutto il percorso è quella psicosintetica, così come elaborata da Roberto Assagioli, a cui si aggiungono altre teorie e autori affini.
Per capire sin da subito la visione da cui sono partita per sviluppare la tesi, condivido il concetto di dolore così come espresso da Assagioli:

La sofferenza purifica, bruciando col suo benefico fuoco tante scorie interne; ci tempra, ci rafforza, sviluppa e matura ogni aspetto della nostra coscienza. In certi casi, si può arrivare a una comprensione così piena della [sua] funzione, [che,] mentre il livello emotivo soffre, un livello più alto può gioire.

Roberto Assagioli, Comprendere la psicosintesi, Roma, Casa Editrice Astrolabio, 1991, pp. 48-49

In sintesi: la sofferenza non è casuale, ha una sua specifica funzione. La sofferenza purifica, ma cosa di noi nello specifico?

La parola “sofferenza” deriva dal latino sufferentia che significa “sopportazione, pazienza”. Sopportare è una virtù dei forti perché implica la capacità di saper reggere qualcosa su di sé, di sostenere qualcosa, anche qualcosa di molto pesante come il dolore. Lo stesso si può dire della pazienza perché 

paziente è chi accetta e sopporta con tranquillità, moderazione, rassegnazione, senza reagire violentemente, il dolore, il male, i disagi, le molestie altrui, le contrarietà della vita in genere.

Fonte Treccani

Si dice che la pazienza sia la virtù dei forti. Anche qui credo sia importante far subito una precisazione: pazienza non significa farsi andare bene tutto quello che accade o che ci viene detto o chiesto. Per dirla come un’immagine: paziente è il vecchio marinaio che attende il passaggio della tempesta e, nel frattempo, rammenda le sue reti da pesca. Non combatte la tempesta, non la maledice, la osserva, l’accoglie per quello che è, un momento che passerà, e nel frattempo si dà da fare per quello che può, perché sia pronto quando tornerà a splendere il sole.

Immagine di Greg Bierer

Il marinaio non ha mai neanche pensato di scappare altrove, dove le tempeste non imperversano: lui sa che dovunque andrà, ci saranno giorni bui e ventosi.
Al contrario del marinaio, però, spesso di fronte al dolore si reagisce: si digrigna i denti maledicendo la vita e chiunque ci capiti a tiro oppure si scappa, si tenta di fuggire il più lontano possibile. Del resto è umano: chi non lo farebbe di fronte a qualcosa percepito come spiacevole e pericoloso? Ne va della nostra sopravvivenza, pensiamo. Voglio stare bene, voglio essere felice! Ci ripetiamo, imploriamo, urliamo. Ma più ci opponiamo e più la sofferenza ci stringe come una tenaglia, si fa compagna silenziosa e costante della nostra quotidianità: un ospite indesiderato, qualcuno che odiamo ma che non riusciamo a cacciare dalla nostra vita.

Forse ricordi la storia del granello di senape: “Portami un seme di senape da una casa che non abbia mai conosciuto il dolore. Lo useremo per far uscire il dolore dalla tua vita”, dice il sant’uomo alla donna in questa antica fiaba cinese e lei non ha bisogno di riflettere sul da farsi, si getta a capofitto nell’impresa perché quando il dolore morde il primo impulso è quello di allontanarlo il più possibile, scappare, eliminarlo se necessario. La donna parte e nel suo pellegrinaggio bussa a una porta dopo l’altra, infaticabile, perché nessuna casa è mai quella giusta, nessuna storia le porta la testimonianza di un’esistenza felice e totalmente priva di dolore. 

Alla ricerca di un modo per cancellare la sua sofferenza, la donna inizia un viaggio che la conduce, invece, ad incontrare il dolore altrui e le permette di scoprire risorse inaspettate: la sensibilità di saper ascoltare gli altri; la forza interiore di soccorrerli e confortarli. 

Il dolore, da cui inizialmente fugge, si trasforma in una via attraverso cui passare, spiacevole e scomoda, a tratti quasi insopportabile, una via stretta e angusta che, però, finisce per offrirle una grande opportunità: quella di ritrovare se stessa, di maturare con calma, di fiorire pienamente.

Immagine di Pexels

Per quanto, anche noi come la donna della fiaba, saremmo portati a rinnegare la sofferenza, a ricacciarla là da dove è venuta, sviluppando un nuovo sguardo, offrendoci la possibilità di farlo in primis, come lei possiamo invece trarne un insegnamento e, una volta imparate le sue lezioni, lasciarla andare. È in quel momento che scopriamo come la sofferenza abbia agito su di noi, sul nostro terreno interiore, come una vanga: come lo abbia scavato, rimestato e reso disponibile ad accogliere nuovi semi, semi spesso inaspettati.

Il dolore, in sintesi, può condurci là dove non avremmo pensato di poter giungere, ci presenta un’alternativa, una nuova prospettiva da cui guardare noi stessi e la vita. Esso ci si offre senza risparmiarsi e reca con sé un’opportunità che solo il tempo, la pazienza e la perseveranza ci doneranno nuovi occhi per vedere.

La sofferenza è come il Gran Canyon. Se si dice “è così bello, bisognerebbe proteggerlo dal vento e dalla tempesta”, bisognerebbe pensare che senza il vento e la tempesta non avrebbe mai potuto essere scolpito così superbamente e quindi non sarebbe mai stato possibile apprezzarne la bellezza. Se non si soffre, non si cresce. Nessuno progredisce se ogni cosa gli viene offerta su un piatto d’argento. Nessuno.

Elisabeth Kübler-Ross

Prossimo articolo: Le funzioni del dolore

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Immagine di cecilevanmeensel

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Tag: Last modified: 2 Ottobre 2023