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Tutto chiede salvezza di Daniele Mencarelli

Recensione scritta da Silvana Pincione

Dopo averci introdotto nella dimensione intimista del personaggio di Daniele ne La casa degli sguardi, Mencarelli prosegue il suo percorso verso la riscoperta del senso della vita con Tutto chiede salvezza (2020), che gli è valso numerosi riconoscimenti (vincitore dei premi Strega giovani, Segafredo Zanetti – un libro un film, Anima per il sociale). Da questo romanzo è stata tratta per Netflix la serie omonima.

L’esperienza del TSO come opportunità di crescita  interiore

Daniele è ancora più giovane, ha poco più di vent’anni e finora ha vissuto all’insegna della dissolutezza, abusando di droghe e alcool; nulla per lui sembra avere uno scopo che giustifichi la resa dell’uomo di fronte alla verità accecante che la bellezza del vivere sia prima o poi destinata a finire. È incapace di accettare il tempo che passa, “di sentirlo posticcio rispetto a tutto quello che nel mio cuore vorrebbe vivere per sempre”.

Un evento che si verifica mentre sta svolgendo il suo lavoro di rappresentante, squarcia il fragile velo delle sue difese interiori contro l’inesorabilità della vita e lo costringe a sottoporsi a un ricovero in regime di TSO (Trattamento sanitario obbligatorio) a seguito di una violenta esplosione di rabbia. I cinque giorni che Daniele trascorrerà in ospedale segneranno uno spartiacque tra ciò che il giovane è stato e ciò che sarà chiamato a diventare. Sperimenterà sulla sua pelle i valori della solidarietà e dell’empatia con chi la società è portata a bollare con lo stigma della malattia mentale: i suoi compagni di stanza. E al contempo si ritroverà a fare i conti con la freddezza dei medici che lo hanno in cura, incapaci di andare oltre le apparenze, per i quali i pazienti non sono altro che nomi scritti sulle cartelle a cui assegnare terapie con il solo obiettivo di una guarigione fisica, ma certamente non dell’anima.

La salvezza come risposta alle inquietudini del giovane Daniele

È l’estate del 1994, l’estate dei Mondiali di calcio , che secondo i suoi programmi Daniele avrebbe dovuto seguire con gli amici e che invece rimane là fuori, in quel mondo reale, che vive al di là dei vetri spessi delle finestre dell’ospedale. All’interno delle quattro mura in cui  è rinchiuso, il giovane vive una dimensione parallela che obbedisce a leggi e codici autonomi in una sorta di scollamento dal reale. Le luci al neon sempre accese annullano la linea di demarcazione tra giorno e notte; in assenza di orologi “i minuti sono lunghissimi, passa un secolo per arrivare all’imbrunire […]”.

Il tempo è una candela crudele che consuma la sua cera con una lentezza lacerante, la sua scansione è data unicamente dalla distribuzione dei pasti – tristi come si addicono a un contesto ospedaliero, inodori e insapori – e dai mutamenti cromatici di quella esigua porzione di cielo che la finestra riesce a inquadrare. “I cerchi concentrici, identici, nauseanti” che Daniele si ritrova a percorrere nel corridoio dell’ospedale suggeriscono il senso di claustrofobia di quei giorni interminabili.

Daniele all’inizio si sente braccato, vorrebbe fuggire; è lacerato dai sensi di colpa nei confronti dei suoi familiari per le pene che sta affliggendo, a partire da sua madre, la donna che vorrebbe vederlo felice e non riesce a capire il vuoto angosciante che lo  divora da dentro. Ed è proprio a seguito di un’accorato dialogo tra madre e figlio che si fa strada nella mente del giovane protagonista, come un’epifania, la consapevolezza di quello di cui avrebbe veramente bisogno.

Quello che voglio per tanto tempo non è stato semplice da dire, tentavo di spiegarlo con concetti complicati […] E di parole ne ho usate tante,  troppe, poi ho capito che dovevo andare in senso contrario, così, di giorno in giorno, ho iniziato a sfilarne una, la meno necessaria, superflua. Un poco alla volta ho accorciato, potato, fino ad arrivare ad una parola sola. Una parola per dirmi quello che voglio veramente, questa cosa che mi porto dentro dalla nascita, che mi segue come un’ombra, stesa sempre al mio fianco. Salvezza.

“Ossessione” e “desiderio patologico” insieme, Daniele invoca la salvezza per sé e i suoi familiari, ma anche per “tutti i fratelli passati e futuri”, perché a macerarlo è il dubbio che “tutto sia nient’altro che una coincidenza del cosmo, l’essere umano come un rigurgito di vita”. Il giovane, di fronte alla sollecitudine dei medici che intendono indagare sul suo stato di salute mentale, prova a comunicare i suoi dubbi, le sue inquietudini, ma non si sente preso sul serio: è come se parlasse in una lingua che gli altri, i “sani”, non solo non sono in grado di comprendere, ma nemmeno si sforzano di farlo.

I compagni di stanza di Daniele: un viaggio nel mondo della “malattia mentale”

E allora ecco annunciarsi la svolta, il cambio di prospettiva, il ripiegamento di Daniele verso la realtà della stanza che condivide con altri cinque “malati” come lui, ognuno con la propria storia, il proprio dolore. C’è Mario, il professore avvolto in una vestaglia invernale che mangia solo mele cotte e che ha  per amico un uccellino che vive sui rami di un albero confinante con la finestra, su cui è solito affacciarsi continuamente come se fosse “prigioniero di un recinto magico, invisibile”; Giorgio, “bestione di una trentina d’anni, alto un metro e novanta”, che indossa “una canottiera a coprire il torace enorme”, con alle spalle i tormenti di un vissuto abbandonico; Madonnina, “barba appuntite e ossa consunte”, ridotto a un ectoplasma, annullato fino a non avere più un’identità reale; Alessandro, “nulla spinto a forza”, accudito amorevolmente dal padre; infine Gianluca, chiassoso ed eccessivo nei toni e nell’aspetto, stonato nel contesto come stonate sono le sue movenze esagerate e i suoi capelli scoloriti. I gesti, i movimenti, le azioni compiuti da ognuno di loro fanno riflettere Daniele sul fatto che

Qui la vera condanna non è il TSO, magari fosse quello, la vera pena affibbiata dal destino sta nella reiterazione del vissuto, come le repliche di uno spettacolo, un’eterna prima teatrale.

Inizialmente a prevalere è un sentimento di odio, dietro ai quali si cela la paura di quello che Daniele un giorno potrebbe diventare, “l’incarnazione del mio futuro”. Ma dopo essersi scontrata con l’ipocrisia del pregiudizio, la rabbia di Daniele evapora per lasciare spazio a uno spiraglio, un’apertura.
In particolare tra Daniele e Mario si instaura un’affinità immediata, istintiva; è come se Mario riuscisse a prevenire le domande e i dubbi del giovane e mettesse la sua esperienza a sua disposizione:

Fidati pure dei farmaci, dei medici, ma non smettere di lavorare su te stesso, di fare di tutto per conoscerti meglio […] 

Guardati attorno, qui dentro siamo tutti vittime e carnefici di noi stessi.

Non sto dicendo che non esista la malattia mentale […] Ma oggi non si cura più la malattia mentale, oggi è l’enormità della vita a dare fastidio, il miracolo dell’unicità dell’individuo, mentre la scienza vorrebbe contenere, catalogare. Ormai tutto è malattia, ma vi siete mai chiesti perché? […] Loro non vogliono curare, ma depurare, purgare, invece dovrebbero saper distinguere la follia buona, costruttiva, da quella cattiva, e distruttiva.

Io credo che gli artisti abbiano in comune coi matti una cosa: nessuno può dirgli cosa guardare e come guardarlo, chiamala libertà se vuoi.

La poesia come mappa nel percorso verso la salvezza

Se la salvezza fornisce al giovane Daniele una destinazione verso cui tendere, come in La casa degli sguardi passa il messaggio che è la poesia la mappa con le coordinate che potranno permettergli di orientarsi lungo il percorso. Il suo è un viaggio mentale che si configura come la fuga da una realtà altrimenti insopportabile e che ha come riferimento “un altro orizzonte, quello dell’immaginazione”. 

Quando si tocca il vertice interno delle cose, un’improvvisa lucidità, le parole escono dalla terra, di carne ed ossa. […] Sull’ultima pagina, con la grafia elementare […] la poesia a mia madre, al mio dolore, quello di questi giorni, quello di sempre.

Ed è proprio attraverso la lettura della poesia il momento in cui Daniele sente vicini i suoi compagni, nei loro occhi legge una partecipazione vera e sofferta che rende autentica la sua apertura nei loro confronti. Anche lo stile riflette queste suggestioni: come in La casa degli sguardi, vi è totale aderenza al realismo attraverso la scelta di un linguaggio essenziale nei dialoghi – con alternanza tra registro colloquiale e formale a seconda degli interlocutori – ma lo spazio riservato all’interiorità di Daniele è quello dove la vena poetica dell’autore trova la sua espressione più autentica. 

Gli ultimi giorni hanno la sorpresa di riservare anche dei momenti in cui  la sofferenza rimane in sottofondo per lasciare spazio ad altre sfumature emotive, non c’è mai sconfinamento nella leggerezza e nella spensieratezza, ma è come se la tensione rallentasse, prima del sovvertimento definitivo affidato alla parte finale del libro. 

Bastava talmente poco.  Bastava ascoltare, guardare negli occhi, concedere. […] Invece non l’hanno fatto. […] Perché i matti, i malati vanno curati, mentre le parole,  il dialogo, è merce riservata ai sani. Quale abbruttimento è la scienza? Non aprirsi mai alla pietà […] Sentirsi padroni di tutte le risposte […] ”

La denuncia contenuta dalle parole di Daniele è viscerale: l’abbruttimento della scienza altro non è che abbruttimento in senso lato di quella società  che patologizza la diversità, enfatizzando la dicotomia tra chi è sano e chi è malato, nella presunzione che l’ascolto sia esclusivo appannaggio del primi, incapaci di “guardare negli occhi” e quindi ciecamente disumanizzati, violenti, sopraffattori. Ma un messaggio di luce rischiara il cono d’ombra gettato da questa terribile verità: la malattia ha una sua dignità intrinseca che nessun cinico rappresentante di quell’abbruttimento può mettere in discussione. Una dignità che passa attraverso la rivendicazione del diritto a essere rispettati nelle proprie fragilità e nel bisogno, empatico, del contatto con l’altro.

Tutto chiede salvezza si risolve così nel coraggioso manifesto programmatico di quella che viene proclamata dal sentire comune come diversità e che, trascendendo la componente patologica, altro non è che la parte più fragile e insieme più autentica di ogni essere vivente. In altre parole, la più umana. 

Informazioni sul libro

Titolo: Tutto chiede salvezza
Autore: Daniele Mencarelli
Editore: Mondadori
Pagine: 204

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La serie di Daniele Mencarelli (recensioni)

Immagine di Sean Robertson

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Tag: , Last modified: 21 Gennaio 2024