Racconto “Io mai” (estratto)

Io mai. Esistevano altre parole per dirlo? Io mai. Mai per primo.
Era ripartito da qualche giorno e, lungo la via, non aveva incrociato che un mendicante e un cane randagio. Il mendicante gli aveva riservato uno sguardo obliquo, gli occhi socchiusi a feritoia. «Vagabondi», gli aveva sentito bofonchiare mentre ritraeva la mano lercia, per evitare qualsiasi contatto compassionevole. Il cane, intimorito dall’incontro imprevisto, aveva abbandonato la strada maestra per rifugiarsi su sentieri sconosciuti. Ci si poteva fidare di chiunque, aveva riflettuto il giovane osservando il cane sparire nel sottobosco, ma mai di un’anima errante.
Portava con sé una vecchia sacca di cuoio in cui conservava i suoi unici averi e tre oggetti tra i più preziosi per lui, tre piccoli tesori. Il viaggio aveva impolverato i suoi abiti da giovane apprendista, insozzato le scarpe di fango e stanchezza, incrostato gli scuri capelli di sudore e meraviglia. Al suo fianco camminava l’ombra, fedele compagna del suo peregrinare: a quell’ora del giorno si ritraeva sempre un po’ e, presto, lo stomaco del giovane avrebbe iniziato a brontolare.  Ma ecco un vecchio contadino venirgli incontro, lo sguardo puntato sulla strada, tutto in lui proteso nello sforzo di tirarsi dietro un carretto da cui spuntavano un rastrello, una pala e una cassetta di frutta e verdura. «Buon uomo», domandò il giovane quando il contadino gli fu accanto. «Il prossimo villaggio è per di qua?» Il contadino sollevò lo sguardo, sfiorò appena il viso del giovane e subito tornò a fissarsi sul terreno. Un breve cenno di assenso ed era già passato oltre. «Grazie», replicò il giovane sperando in cuor suo di poter presto riposare e dar soddisfazione al suo stomaco.

Si era ormai abituato ai grandi silenzi, ai piedi doloranti e alla fame che mai si placava: niente lo spaventava più da quando una paura più grande lo aveva costretto a mettersi in viaggio per fuggire lontano. Lontano da suo padre, dal suo villaggio, dal suo lavoro, da tutto ciò che aveva imparato a conoscere, ma soprattutto lontano da lei.
Il giovane si lasciò allo spalle i primi filari di uva ancora acerba, protetti da bassi muretti, molto simili a quelli su cui da piccolo si divertiva a correre, prima che qualche contadino minacciasse lui e i suoi amici costringendoli a disperdersi. Ognuno per la sua strada, così da piccoli, così da adulti.
Lungo la via scorse, poco più avanti, una coppia di anziani fermi in prossimità d’un cancelletto in legno. Lui con una cesta di vimini sulla schiena, lei con un falcetto e un cestino in mano. Il giovane li osservò discreto mentre l’uomo apriva il cancello e lasciava passare la donna, prima di richiuderselo alle spalle. La cavalleria non conosceva età o ceto sociale, pensò il giovane che, seppur fosse ormai stato elevato al rango di adulto, ancora sentiva di esserne degno solo per metà. Non bastavano i compleanni accumulati o un lavoro di apprendista, così come non erano sufficienti i primi soldi guadagnati né gli ultimi spesi: essere adulti, per lui, significava altro. Era qualcosa che ancora andava cercando, che da quando si era messo in viaggio, sentiva di aver appena intravisto. Aveva creduto più volte di averlo trovato, magari in quel villaggio o in quell’altro, in una nuova vita che gli si prospettava davanti, ma dopo poco ecco che tornava, l’inquietudine. Non poteva restare, non poteva. Io mai, si ripeteva. Mai per primo. Così ripartiva per un altro luogo, un’altra possibilità, una più tenace, una che gli facesse vincere quella gran paura di restare.

Superò le vigne e, prima di giungere in prossimità del villaggio, incrociò ancora qualche passante: nessuna anima errante, però, tutte persone il cui sguardo tradiva una destinazione già tracciata. Infine ecco le mura della cittadella: la sua prossima meta, il luogo dove avrebbe potuto riposare, prima di riprendere il viaggio.
Il giovane le varcò e fu accolto dal chiassoso via vai di un giorno di mercato. Gente che veniva da ogni dove e si recava in ogni dove correndo, spingendo, imprecando, cantilenando: «Frutta e verdura fresca, signori! Venite!»
«Il miglior cavallo della contea. Accarezzate il suo manto, signori! Vi parrà di toccar velluto!»
«Un prodigio! L’ultimo ritrovato della medicina! Curerà ogni vostro male! Imperdibile signore! Accorrete!»
Il giovane si mescolò alla vivacità che, dopo giorni di cammino solitario, si sorprese a ritrovare con piacere in quel nuovo villaggio. Si lasciò rapire dai rumori familiari, dagli odori speziati e dalle mille promesse di un luogo ancora sconosciuto, prima che le sue narici inspirassero l’invitante profumo di pane appena sfornato. Il giovane seguì l’ipnotica scia fino a una bancarella, dietro alla quale una donna alta e in carne lo squadrò e subito distolse lo sguardo rivolgendolo ad altri avventori.
«Vorrei due di questi», indicò il giovane. I suoi occhi erano tutti per la distesa di pane croccante e ancora tiepido che gli ammiccava davanti.
La donna tirò su con il naso facendo scivolare lo sguardo sulle vesti del giovane. Arricciò le labbra e gracchiò: «Con che cosa pensi di pagarmeli?» 
Il giovane non si scompose: infilò una mano nella sacca di cuoio e ne estrasse due margherite. Erano due fiori di campo raccolti durante il viaggio.
«Mi prendi in giro? Che cosa dovrei farmene di quei due fiori inutili?»
Il giovane sorrise, coprì le corolle dei fiori con l’altra mano e, senza che niente fosse detto o in apparenza fatto, riaprì il palmo: al posto delle margherite ora scintillavano due monete.
«Come sua signoria desidera», recitò porgendo le monete e prendendosi il pane.
Salutò la donna con un cenno del capo e si dileguò prima che lei potesse gridare al maleficio.
Le persone non sapevano più apprezzare la bellezza, si rammaricò il giovane mentre addentava il suo pranzo e osservava la vitale confusione che lo circondava.

Prima del tramonto dovrò trovare un posto per passare la notte, considerò una volta sazio. La nuda terra era un giaciglio poco amato anche da un’anima errante come la sua. Quella notte avrebbe dormito in un letto vero, si disse, senza la paura di essere aggredito da un’ombra di passaggio. E si sarebbe concesso il lusso di sognare: era impossibile farlo quando non entrambi gli occhi riposavano sereni, l’uno vigile sull’altro. Chissà se l’avrebbe infine rivista. Se ancora ricordava i suoi lineamenti. Oh certo, certo che la ricordo, sospirò mentre si addentrava nel villaggio. Un villaggio simile a tanti altri in cui aveva sostato, un villaggio simile al suo. Anzi no, nessun villaggio avrebbe mai potuto essere come il suo. Nel suo c’era lei. E lui lo aveva lasciato.
Con il sopraggiungere del tramonto la sua compagna ombra tornò a camminargli innanzi: in prossimità della sera si allungava sempre per poi ritirarsi nel buio della notte. Il giovane soppesò che doveva affrettarsi a trovare una locanda.
Dopo poco scorse l’insegna di una vecchia taverna e ne varcò l’uscio. Si ritrasse investito dal puzzo di vino stantio e fumo, ma non si lasciò scoraggiare e avanzò verso il bancone.
«Mi scusi.»
«Cinque monete», dichiarò l’uomo dietro al bancone, la fronte stempiata, pochi capelli grigi appiccati alla pelata e lo sguardo duro di una vita vissuta male.
«Per cosa?»
«Per la camera, la vuoi?»
«Sì, ma lei come…?»
«Cinque monete e se vuoi mangiare o bere te lo paghi a parte.»
Il giovane gli allungò cinque monete che l’oste afferrò facendole sparire come il migliore dei maghi. A lui non importava quali abiti indossasse il giovane, da dove provenisse né tantomeno dove fosse diretto: non era compito suo impicciarsi degli affari altrui, finché quegli affari non intralciavano il suo guadagno.
«La chiave, ragazzo. Devi lasciare la camera alle prime ore dell’alba, altrimenti mi dovrai pagare un’altra notte.»
«Perché mai?»
«La vuoi o no la camera?»
Il giovane annuì. 
«Bene, locanda mia, regole mie. Se non ti stanno bene, puoi tornare da dove sei venuto.»
Il giovane scosse la testa stanco, afferrò la chiave e salì le scale. Scricchiolavano, così come le assi del pavimento che lo condussero alla sua stanza. Un letto, era tutto quello di cui aveva bisogno. Un letto e un tozzo di pane per cena: pane da dare in pasto al suo stomaco sempre affamato e sonno per sognare. Era tutto il lusso che si sarebbe concesso quella notte e gli sarebbe bastato.

Girò la chiave nella serratura e si ritrovò immerso nella penombra di una stanza piccola e intrisa dell’odore di legno marcito. Di fronte a lui una minuscola finestra, una ferita di vetro nella parete, che il giovane provò a socchiudere per far entrare un po’ d’aria fresca.
Accanto alla finestra, un piccolo tavolo roso dai tarli e sul tavolo il moccolo di una candela, quello che rimaneva del ricordo di tempi migliori. Il giovane l’accese con uno dei fiammiferi che recuperò dalla sua sacca e una tenue luce illuminò lo scarno arredo della stanza: una sedia, un letto, un catino e una brocca.
Sarebbe riuscito a dormire? Si chiese ricordando il lavorio incessante dei tarli a casa del padre. Sì, ce l’avrebbe fatta, si disse, erano solo operai notturni e la sua mente li avrebbe presto ignorati diretta verso altri lidi.
Appoggiò la sacca sul tavolo e si sedette: era tempo di cenare e poi riposare. Infine.
Spazzolò la pagnotta, ormai meno fragrante rispetto a quella del pranzo, e poi si alzò per chiudere la finestra e accostare le imposte, ignorando i rumori che provenivano dalla strada. Soffiò sulla fiamma che tremò e spegnendosi gli restituì il familiare aroma di fumo. Si sdraiò sul letto cencioso e pieno di bozzi, vestito com’era, la sacca sempre accanto. Chiuse gli occhi.
Dabbasso giungevano le grida degli uomini alticci e volgari, intenti a vincere o a perdere a qualche vecchio gioco di carte, mentre le stanze accanto erano testimoni poco discreti di un altro genere di vittorie o sconfitte dell’ego maschile. 
Si era allontanato per tanti motivi, ma uno era anche quello: il tipo di uomo che il padre gli rammentava sempre che sarebbe dovuto diventare. E invece lui no, testardo, voleva tentare altre vie, esplorare diverse possibilità. Voleva diventare uomo per sé, a modo suo. Non delegare ad altri la decisione più importante della sua vita.
Ma sotto al tetto di suo padre non avrebbe potuto perché per lui altre idee, altre prospettive non erano possibili. Certi pensieri, gli ripeteva, andavano estirpati: erano scorie della mente, sortilegi del cuore. Certi dubbi erano roba da donne. Ma del resto cosa ci si poteva aspettare da un figlio cresciuto con troppo amore da parte di una madre debole? Sarebbe stato meglio qualche scappellotto in più. Si sarebbe fatto meno domande, non sarebbe cresciuto storto. Discorsi che il giovane cercava di ignorare, ma come farlo senza rinnegare suo padre? Come trovare il proprio modo di affermarsi in quanto uomo? E poter pensare, pensare pensieri propri?

Il giovane sospirò e riaprì gli occhi. I tarli avevano cominciato il loro lavorio incessante, urla di vittoria, urla di sconfitta. Non erano quelli i ricordi a cui voleva tornare, erano altri. Anche se tutti ugualmente dolorosi, ma alcuni lo erano in modo diverso. C’era anche gioia, c’era un sorriso. Il giovane richiuse gli occhi. Esisteva un luogo in cui avrebbe sempre potuto rifugiarsi, ovunque si trovasse, un luogo in cui realtà e fantasia si incontravano e dove tutto poteva ancora accadere. Quel luogo in cui ritrovava se stesso e ritrovava lei. Lei e i suoi capelli castani raccolti in un crocchio ordinato, quei capelli che si era sorpreso a osservare, ammirare, durante i primi giorni da apprendista dal mastro fornaio, come se si trovasse al cospetto di una regina, il giorno dell’incoronazione. E anche ora che ci ripensava, ecco che risentiva quel tuffo dentro sé, quella piccola capriola che aveva accompagnato il primo incrocio di sguardi.
Lui era solo un imbranato apprendista, lei una giovane commessa, poco più giovane di lui. Lui sempre ricoperto di farina, chiuso nel retrobottega a impastare; lei linda e ordinata, il grembiule legato in vita, il timido sorriso che riservava ai clienti. Lui che si alzava quando ancora tutti dormivano, ma non gli importava perché non c’era altro luogo in cui avrebbe voluto essere; lei che giungeva in negozio recando con sé le prime sfumature del nuovo giorno.
Non c’erano state presentazioni, nessun convenevole. Lui era l’apprendista del retrobottega, lei la figlia del mastro fornaio. Qualche sguardo di sfuggita, qualche curiosità taciuta, due estranei le cui esistenze si incontravano solo nel passaggio del pane caldo dal forno ai cesti disposti in file dietro al bancone. La timida accortezza di lui nell’impastare, la serena riservatezza di lei nel prendere il pane e consegnarlo agli avventori. Era anche questo amore? Lui non avrebbe saputo dirlo, era giovane, goffo, impreparato. Non conosceva altro amore se non quello di una madre che lo aveva cresciuto con strane idee in testa, ripeteva il padre. Una madre che se n’era andata, altrove, che vegliava su di lui, dicevano, ma vegliava in silenzio. Anche lei, in silenzio.

E poi, come ogni anno, nel villaggio era arrivata la Fiera.
«Ragazzo, più veloce! Impasta! Metti quelle pagnotte nel forno! Forza, porta quella cesta in negozio! Sbrigati!» Il suo lavoro in quei giorni non aveva conosciuto tregua: dall’impasto al forno, dal forno alle ceste, dalle ceste agli affamati clienti. Un via vai continuo. Nessun familiare suono di campanello a segnalare un nuovo arrivo: la porta rimaneva sempre aperta e come il ragazzo consegnava nuove infornate di pane, eccole sparire per mano di lei tra sorrisi e ringraziamenti. «Bravo ragazzo, continua così: lavora sodo e verrai ricompensato», gli aveva detto il mastro fornaio e il giovane non sapeva se crederci o meno. In lui ancora risuonavano le parole rabbiose del padre sulla vita, quella meretrice bastarda che non guardava in faccia nessuno: la vita si prendeva quello che voleva e se ti lasciava con un tozzo di pane duro era tanto. «Guarda cos’ha fatto con tua madre! Lei ci credeva alle ricompense: comportati bene, sii un brav’uomo e la vita ti ripagherà. Oh certo, mi ha ripagato portandomela via! Bada ragazzo, non credere mai alla giustizia, non esiste nulla del genere, non per uomini come noi.» E perché non credergli, in fondo, lui lo sapeva bene: anche in quel momento, mentre lei era così vicina, il suo chignon ordinato ad appena un passo da lui, il fiocco del grembiule che lo sfiorava danzando con lei mentre passava dalle ceste di pane al bancone, e il suo profumo, quel profumo di pane e innocenza che non avrebbe potuto appartenere a nessun altra, anche in quel momento lui già lo sapeva. Sapeva bene che lei era una promessa fatta a un altro. Mentre attendeva che lei liberasse una cesta per far spazio a quella nuova, ecco che si era voltata, le guance rosse, gli occhi stanchi ma luminosi. L’aveva guardato, come una regina avrebbe guardato il suo cavaliere e aveva tolto la cesta vuota perché lui potesse sostituirla. «Grazie», gli aveva sussurrato, regale, e lui si sarebbe inchinato se avesse potuto. Invece, aveva appena abbozzato un sorriso afferrando la cesta e si era dileguato. Nessuna parola, nessuna possibilità, solo un silenzio che diceva tutto, l’unico che avrebbe potuto parlare per lui. Poi i giorni della Fiera erano finiti, gli avventori si erano diradati e tutto era tornato ai soliti ritmi: la regina nelle sue stanze, il cavaliere nel retrobottega. «Hai fatto un buon lavoro ragazzo, se potessi ti terrei, ma troverai fortuna altrove. Ecco il tuo compenso», il mastro fornaio lo aveva congedato qualche mese dopo, presto, infatti, sarebbe arrivato il suo vero successore, colui che avrebbero potuto incoronare re. «Hai visto?» , aveva commentato suo padre. «Alla fine la vita ti dà sempre un calcio nel sedere. Nessuna pietà. E ora che farai? Qui non c’è futuro per te. Vai a cercartelo altrove.»

Disteso su quel letto cencioso e sconosciuto, il giovane ripensava a quei giorni e si chiedeva: e se? Se le avessi detto qualcosa? Se prima di mettermi in viaggio l’avessi rivista, almeno una volta, sarei ugualmente partito?
Sì, lo sapeva, sarebbe partito mille volte ancora, non c’era altro che potesse fare. E ora sapeva anche qualcosa che il padre, che non era mai partito, ignorava: il suo futuro non l’avrebbe trovato. Non poteva trovarlo perché non c’era nient’altro che il presente e quello di cui lui ne avrebbe fatto, momento per momento. Anche ora, proprio in quella stanza, su quel malandato letto, tra il lavorio dei tarli e le urla degli uomini nella taverna, lui stava creando. Ripensava a chi era stato e si chiedeva chi era ora e cosa avrebbe potuto fare con l’uomo che era diventato.
I suoi occhi avevano conosciuto altri paesaggi, altri panorami; le sue orecchie avevano sperimentato lo stridio delle tempeste e il dolce richiamo dei fringuelli al mattino; le sue mani avevano incontrato altre mani, accarezzato visi; la sua bocca aveva gustato nuovi sapori e le sue labbra si erano accostate ad altre labbra; ma il suo naso, il suo naso era rimasto fedele, fedele a un profumo che gli ricordava pane e innocenza. 
Piano, con dolcezza, quel profumo lo guidò, ancora una volta, in un altro tempo e luogo, in un tempo senza tempo e in un luogo non luogo dove ritrovò la consistenza dei gradini del retrobottega. Tra le mani aveva un bastoncino con cui disegnava cerchi e forme sul terreno polveroso. Nel sogno, ora, quell’ultimo giorno della Fiera lui non era tornato a casa, non subito, si era seduto su quei gradini e aveva aspettato. Quel giorno lei era uscita, senza più il grembiule a fasciarle la vita, alcune ciocche scendevano a incorniciarle il viso, libere dal rigore dello chignon, tra le braccia una cesta su cui era disteso un panno grigio. Quel giorno, nel vederla, lui si era alzato, sull’attenti. Un cavaliere davanti alla sua regina.
«Posso aiutarti?» aveva chiesto. 
Lei lo aveva guardato e poi avevano percorso un breve tratto di strada insieme: lui con la cesta di lei tra le braccia, lei che non sapeva bene cosa fare con le sue mani ormai libere. Aveva provato a riportare le ciocche ribelli all’ordine.
Lui le aveva detto che tutti avevano diritto a un po’ di libertà, alle proprie scelte, anche le sue ciocche. Lei lo aveva guardato stranita e poi era scoppiata a ridere. E aveva assentito lasciando che le ciocche tornassero a incorniciarle il viso. 
Quel giorno lui avrebbe voluto dirle tante cose, continuare a farla ridere. Sperava che lei gli dicesse: «Ho scoperto che adoro ridere, per favore fammi ridere ancora.» E lui lo avrebbe fatto perché lei era la sua regina. Era per lei che aveva imparato il trucco delle margherite, ma alla fine non aveva avuto il coraggio di mostrarglielo e lo aveva riservato a quella donna paffuta e diffidente che vendeva pane.
Un colpo secco. Un altro. «Sveglia!» Un pugno si abbatté sulla porta. «Se non esci entro breve mi paghi una notte in più!» grugnì l’oste e il giovane si alzò a sedere sul letto. Freddi raggi di luce filtravano dalle imposte e coloravano la stanza di azzurro.

Copyright © 2023 Lara Marzo 

Immagine in apertura di Kristine Cinate

Last modified: 6 Settembre 2023

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