Racconto “Il ventunesimo” (estratto)

Pesca una carta: era il saluto con cui nonna Agnese accoglieva Estelle a ogni visita. La nipote sceglieva una carta, tra quelle stese a ventaglio davanti a lei, e poi aspettava che la nonna pronunciasse il verdetto. Ogni volta, Agnese soppesava la carta, osservandola con occhio critico, prima di posarla davanti a Estelle, sul tavolo in formica azzurra. Dopo di che le raccontava una storia: poteva trattarsi di una storia che le apparteneva o della storia di qualcun altro, comunque fosse Estelle ne rimaneva sempre affascinata.
In più di un’occasione, però, la nipote si era accorta che la nonna rispettava il rituale solo quando lei andava a trovarla da sola: in presenza dei suoi genitori, Agnese rimaneva in silenzio e volgeva spesso lo sguardo oltre la finestra, in contemplazione di qualcosa a loro precluso. Non era sempre stato così, prima del suo ricovero nell’ospizio la nonna era stata un’altra persona: vivace, determinata, a tratti autoritaria. Tutto il contrario della madre di Estelle, che era poi sua figlia. 
Una volta Estelle si era avventurata a chiederle perché avesse accettato di lasciare la sua casa e Agnese le aveva risposto: «Preferisco così, bimba mia.»
«Ma perché? Cos’è cambiato rispetto a quando abitavi per conto tuo?»
«Eh, ho combinato qualche guaio, non sono più in forma come un tempo. Adesso i tuoi genitori non si fidano più di me, ma vivere con loro… oh bimba mia, semplicemente preferisco così.»
Estelle, però, non si era data per vinta. Odiava quel posto, l’odore, i colori, la sensazione di precarietà e indolenza. Come se tutto il bello fosse stato scaraventato fuori da lì, senza alcuna possibilità di potervi rientrare. Sua nonna era la persona più brillante che Estelle avesse mai conosciuto: come faceva, quindi, ad accettare una vita del genere dove ogni ora era scandita da una regola che non poteva essere infranta, mai?
«Non capisco, spiegami nonna. Qui è così triste, non puoi andare da nessuna parte! Come fai ad accettarlo?»
Agnese si era portata un dito nodoso alla testa e aveva sussurrato: «Con questa vado ancora dove voglio, non ti preoccupare per me. Piuttosto bada a te stessa, che tu scelga sempre la tua strada e non quella tracciata da qualcun altro.»
All’inizio, quando erano i suoi genitori a decidere, Estelle si recava dalla nonna una volta al mese, ma poi era cresciuta e le era stato concesso di avventurarvisi anche da sola. Prendeva il treno nel primo pomeriggio, appena dopo pranzo, e rimaneva sull’attenti per tutto il viaggio: non vedeva l’ora di varcare la porta che divideva il mondo in cui viveva lei da quello in cui la nonna l’avrebbe esortata a pescare una carta.
L’ultima volta Estelle aveva atteso più del solito che la nonna gliela mostrasse: era rimasta a fissarne il dorso bianco decorato da piccoli rombi viola mentre Agnese sembrava essere in ascolto, come se ci fosse un dialogo segreto tra lei e la carta. Poi l’aveva girata piano e l’aveva posta davanti a Estelle che aveva letto: Il mondo.
«Oh bimba mia», aveva infine detto la nonna. «È arrivato il tuo momento, stai per spiccare il volo. Prendi bene la rincorsa, mi raccomando.»
«Nonna, cosa vuoi dire? Sta per succedere qualcosa?» Estelle aveva imparato che le carte non raccontavano nulla di quello che sarebbe potuto accadere fuori, ma piuttosto di quello che stava accadendo dentro. Eppure scopriva sempre di aspettare il responso della nonna con un certo timore.
Agnese aveva riso scuotendo la testa: «Niente che io possa sapere, è tutto nelle tue mani.» Estelle aveva sperato in qualche altra parola, ma la nonna negli ultimi tempi aveva iniziato a perdersi sempre più nei suoi pensieri. Da quando viveva nell’ospizio, Estelle l’aveva vista spegnersi un poco alla volta, a straniarsi fin quasi, in alcune occasioni, a non riconoscere la nipote oppure a scambiarla per sua madre, Graziella. Col tempo Estelle aveva compreso il motivo per cui sua nonna aveva accettato quella nuova sistemazione: era una donna intelligente e aveva colto, prima di tutti, i segnali di quanto le stava accadendo. Si era ritirata con dignità e aveva accettato di trascorrere i suoi ultimi anni dove nessuno si sarebbe dovuto preoccupare per lei. Del resto, Estelle ne era consapevole, i suoi genitori non si sarebbero mai potuti prendere cura di Agnese, sua madre men che meno. Da quando la smemoratezza della nonna si era accentuata, Graziella aveva evitato ogni contatto. Estelle l’aveva sentita dire che il suo era un dolore sconfinato, il dolore di una figlia devota e affranta: troppo devota e affranta per sopportare la realtà di una madre che stava perdendo la ragione. Graziella accampava sempre un valido motivo per declinare gli inviti di Estelle ad accompagnarla: un mal di testa o un capogiro improvviso erano i suoi carcerieri più assidui.
A Estelle mancava l’Agnese della sua infanzia, i loro pomeriggi dopo la scuola, le passeggiate per i campi, le risate, le esortazioni della nonna a fare sempre il meglio che poteva, senza fissarsi troppo sul risultato.
Il giorno in cui ricevettero la telefonata, Graziella rimase a letto per tutto il pomeriggio mentre il padre di Estelle, dopo aver appreso la notizia della morte di Agnese, non rientrò a casa fino a sera tarda. Estelle sapeva che ognuno affrontava il dolore a modo suo, ma i suoi genitori erano maestri nel dimostrarlo nei modi più bizzarri. A sua madre sembrava avessero donato un cuore troppo fragile e codardo, a suo padre uno a cui saltava qualche battito ogni tanto. 
Ironia della sorte Agnese se l’era portata via un cuore che, alla fine, si era fermato prima che la testa l’abbandonasse del tutto. L’ultima volta che lei ed Estelle si erano viste, Agnese sembrava tornata ad essere padrona di se stessa. Le aveva indicato le carte disposte a faccia in giù sul tavolo e aveva detto: «Questa volta scelgo io» e aveva toccato una carta facendola scivolare verso di sé. L’aveva girata: Il mondo. Anche per lei la stessa carta. Agnese aveva sorriso tra sé e sé rimirandola e poi aveva sollevato lo sguardo su Estelle: «È arrivato anche per me il momento di spiccare il volo. Finalmente.»
«Ma cosa significa questa carta?» aveva domandato Estelle.  «Non me l’hai spiegata come invece hai fatto per tutte le altre.»
Agnese era rimasta in silenzio poi, scuotendo la testa, aveva rimesso la carta tra le altre, raccogliendole in un mazzo ordinato.
«Questa non si può spiegare, la si può solo vivere e per ognuno è diverso.»
Quel pomeriggio Agnese aveva preso per mano Estelle e l’aveva accompagnata in uno dei suoi viaggi dentro: si erano avventurate nella terra dei ricordi, avevano scalato montagne di esperienze e si erano tuffate nel più buio degli abissi tornando a galla con qualche perla rara che Agnese aveva segretamente custodito per tanti anni prima di condividerla con la nipote.
«Per quanto io non abbia rimpianti», le aveva rivelato Agnese, «ogni tanto mi chiedo se con tua madre io non abbia sbagliato. Forse avrei dovuto essere più dura o forse più dolce. Avrei dovuto insegnarle a essere più coraggiosa o forse più paziente.» Aveva sospirato prima di proseguire: «Ma a questo punto che importanza può avere? Lei è diventata madre a sua volta e non ha imparato.» Agnese aveva sollevato le spalle: «E io non ci posso fare niente.»
Estelle l’aveva guardata, le mani stanche della nonna posate sul mazzo di carte al centro del tavolo.
«Mamma non ha colpa se è sempre triste, lo sai nonna, non ci può fare niente se si sente così», aveva replicato Estelle prendendo le difese della madre, come era sempre stata abituata a fare.
«Non parlo di colpe, bimba mia, neppure per me stessa. Parlo di responsabilità: mi chiedo se avrei potuto fare meglio, ma poi mi rendo conto che ho fatto quello che potevo e forse è il meglio che possa fare ciascuno.»
Il primo mese dopo il funerale, un pomeriggio Estelle si era ritrovata in stazione, come se non potesse farne a meno. Era salita sul treno, come aveva fatto per anni, ma quando si era seduta e il treno era ripartito, il suo sguardo era scivolato sul paesaggio, alla deriva, e si era accorta che stava andando in un luogo dove non vi era più nessuno ad attenderla.
Quell’ultima volta in cui si erano viste, ricordava Estelle, la nonna aveva detto: «Nessuno ha colpa della propria tristezza, bimba mia, ma se non se ne prende la responsabilità ne sarà sempre in balia. Non commettere lo stesso errore di tua madre Estelle, non vivere come una mendicante se sei nata regina.»

Copyright © 2023 Lara Marzo 

Immagine in apertura di miracosic

Last modified: 6 Settembre 2023

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