Racconto “Colei che attende” (estratto)

Ne avevano persi a centinaia, migliaia. Ogni anno il mare spalancava le fauci e inghiottiva giovani e vecchi, padri, mariti, fratelli, figli, amici. Non c’era meschinità nella sua fame. Al mare non interessava se avevi progetti, se c’era qualcuno ad aspettarti o se potevi andartene senza rimpianti.
Non faceva distinzioni né di patrimonio né di lignaggio, era indifferente all’uniforme che indossavi.
Il mare chiedeva pegno, ma era equo, non ti guardava in faccia e ti accoglieva nel suo ventre, innocente o peccatore.
Chi guardava le navi salpare e attendeva il loro ritorno, spesso finiva per aggiungersi alla lista dei perduti. Madri, mogli, sorelle, figlie a cui il dolore dell’assenza tramortiva il cuore fino a spegnerlo. Era una malattia silenziosa che colpiva chiunque soffermasse troppo a lungo lo sguardo sull’orizzonte vuoto e immobile.
Ne avevano perse a centinaia quando nella città marina di Uthr decisero di commissionare il progetto della statua.
Sarebbe sorta nel punto più alto della città, accanto al faro affacciato sul mare. Una madre, moglie, sorella e figlia che avrebbe guardato l’orizzonte in paziente attesa per tutte le altre.
Sopra di lui, Tobias Jansen sentiva le voci dei manovali, ordini urlati gli uni agli altri per farsi forza e issare la statua sul piedistallo di rocca. Roccia su roccia.
Fissava il mare, i capelli biondi incrostati di salsedine, sulle guance un velo di barba. La camicia chiara a quadri era arrotolata fin sopra i gomiti e una bandana, un tempo rossa, gli fasciava il collo come a proteggerlo. Sarebbe potuto sembrare un marinaio semplice poco più che ventenne, se non fosse stato per lo sguardo freddo e militarmente distaccato.
Qualcuno si fermò accanto a lui.
«Quando parti?»
«Pochi giorni», rispose Tobias senza voltarsi.
Julian batté un piede sulla sabbia per scrollarla dalla suola.
«Torna anche stavolta, eh?»
Tobias gli rivolse un sorriso storto e la cicatrice, che tagliava in due la sua guancia sinistra, scomparve per metà.
«Hai visto la statua?» continuò Julian. «Starà sullo spiazzo del faro. Non pensavo, ma forse è una buona idea.»
Gli occhi chiari di Tobias erano tornati a posarsi sull’orizzonte e lui annuì distratto. Julian gli strinse l’avambraccio con l’unica mano buona, quella sinistra.
«Lo sai già quello che voglio dirti, ma non vuoi sentirlo. Allora ti dico solo una cosa e ti lascio in pace.»
Julian si allontanò di un passo e prese fiato, era difficile per lui parlare. Nella famiglia Jansen, ripeteva spesso il padre alla moglie, non vi erano mai stati grandi oratori, che lei si facesse quindi una ragione del suo ampio e inaccessibile silenzio. Tale padre, tali figli.
«Devi tornare Tobias, devi tornare anche questa volta perché non ti perdonerò mai se non prenderai in braccio tuo nipote.»
Tobias si voltò di scatto.
«Heidi è incinta», rivelò Julian.
Il sorriso storto tornò e Tobias si volse nuovamente al mare. Poi disse: «Bene fratello, gli porterò un regalo.»
La chiamarono “Colei che attende” e divenne una sorta di divinità. Chi salpava non mancava di lasciarle un fiore fresco ai piedi, chi restava portava ogni sera una candela e l’accendeva per chi era lontano. La cera si scioglieva lentamente, il vento schiaffeggiava le fiamme, le ravvivava o spegneva, come faceva il mare con le vite, e spazzava i fiori marci che nessuno toccava più.
Vento e pioggia erano gli spazzini ai piedi dell’improvvisata dea.
Tobias partì prima che la inaugurassero.
Passarono sei mesi e altrettanti ne sarebbero dovuti ancora passare. Centoottantadue giorni, centoottantadue notti.
C’era una guerra in corso e c’era un altro mondo da esplorare.
A Tobias non interessavano né l’una né l’altro, a lui interessava il mare e la sua fredda e integerrima imparzialità. Il mare elargiva vita quanto morte senza malignità né calcolo.
Tobias navigava da quando aveva dieci anni, dopo che avevano aggiunto il nome del padre alla lista dei perduti.
Sua madre era rimasta ad aspettare, dapprima che il marito tornasse, poi che i figli tornassero e infine che fosse lei, ammalatasi, a partire per l’ultimo viaggio.
Tobias aveva cominciato la sua carriera come mozzo, sperando di approdare al grado di capitano, ma si era incagliato in quello di luogotenente senza grandi prospettive. Il mondo degli uomini non era come quello del mare, loro badavano al patrimonio e al lignaggio e senza le conoscenze giuste, la sua divisa non sarebbe più cambiata. Tobias aveva incassato l’ennesima delusione, scoprendo che faceva sempre meno male. La prima era la peggiore, poi dal torace il dolore si spostava in alto finché raggiungeva la gola dove si trasformava in uno sgradevole sapore amaro. E lì rimaneva.
A lui bastava il mare, lo conosceva e si fidava. Il mare non gli avrebbe inferto inutile sofferenza.
Quel giorno sulla spiaggia, prima di partire, Tobias aveva deciso che, se il mare l’avesse voluto, sarebbe stato il suo ultimo viaggio. Non si sarebbe più aggrappato alla vita. Stava per stringere il patto quando era arrivato Julian e lo aveva nuovamente incastrato con la promessa di sopravvivere.

Al largo, la prima nave della flotta delle Province Unite tracciava la rotta. Era una notte placida di stelle vanitose che si specchiavano nell’acqua scura.
Sul ponte, Tobias cullava l’insonnia in attesa che sorgesse il sole.
Non ci furono segnali, silenziosa e nera la nave inglese lanciò il primo colpo di cannone.

Copyright © 2023 Lara Marzo 

Immagine in apertura di Rujhan Basir

Last modified: 6 Settembre 2023

Comments are closed.